Lo avevamo scritto un mese fa: le elezioni di Ostia avrebbero rappresentato un test importante per lo stato di salute dell'amministrazione del Movimento 5 stelle a Roma e per la sindaca Virginia Raggi. E se anche la candidata del MoVimento alla guida del X Municipio, Monica Di Pillo, è arrivata prima con il 30% dei consensi, al primo turno delle elezioni comunali del 2016 il M5s aveva fatto il pienone al primo turno con il 46% dei consensi. Inutile girarci intorno: l'emorragia di voti e l'alta astensione non sono un buon segnale dopo il primo anno e mezzo di governo della capitale.
E non è solo una questione di numeri ma anche di simboli: dove è finito l'entusiasmo della Marcia dell'Onestà che guidata da Beppe Grillo prometteva di cambiare tutto? La grande speranza suscitata dal Movimento 5 stelle dopo Mafia Capitale sembra essersi arenata una volta espugnato il palazzo sotto il peso dei guai interni della giunta (caso Marra, dimissioni a catena degli assessori, caso Romeo, inchieste e rinvii a giudizio), degli scontri tra correnti sempre negati e mai resi pubblici, ma soprattutto perché i cittadini vedono un costante peggioramento della propria qualità della vita.
Governare Roma è difficile, soprattutto senza soldi in cassa e stretti dai vincoli del Salva Roma, e come non smettono di ripetere i grillini al potere nessuno ha la bacchetta magica. Ma le periferie che in modo plebiscitario hanno chiesto un cambiamento votando per Virginia Raggi si sentono ancora più abbandonate di prima. E qualcosa non ha funzionato neanche per l'opera di due anni di commissariamento seguito allo scioglimento per mafia, che avrebbe dovuto ridare fiducia ai cittadini nelle istituzioni e costruire le condizioni per una rinascita del litorale romano, rinnovando la partecipazione e il protagonismo democratico. A vincere invece è stata l'astensione.
Se Raggi e il Movimento 5 stelle non ridono, a piangere è soprattutto il Partito democratico, che racimolando appena il 13% dei consensi con Athos De Luca certifica il suo stato comatoso. Certo, presentarsi di fronte agli elettori dopo la condanna a cinque anni dell'ex presidente Andrea Tassone nel processo contro Mafia Capitale non era per nulla facile, ma alla candidatura di De Luca si è arrivati nel peggior modo possibile, una mediazione dopo lo scontro e reciproci ultimatum tra gli esponenti locali del partito e la segreteria romana. Un disastro reso possibile anche grazie allo zampino di diversi esponenti nazionali che puntavano all'accordo con i centristi della ministra Beatrice Lorenzin, per convergere sul sostegno al giornalista Andrea Bozzi. Una crisi che appare irreversibile quella del Pd romano, che di fatto come partito non esiste più: senza un progetto per la città, senza proposte chiare e dialogo con i cittadini, rimangono gli esponenti istituzionali che si limitano ad attaccare l'amministrazione Raggi (avendo spesso gioco facile) e uno zoccolo duro di elettori con più dubbi che certezze.
Il centrodestra unito invece ha dato prova di essere in salute, dopo aver marciato separato alle elezioni comunali, conquistando il ballottaggio con il 26% dei consensi per la candidata di Fratelli d'Italia Monica Picca. Fuori dai poli tradizionali si discute molto del successo di Casa Pound che con il 9% entra in consiglio municipale dopo una campagna elettorale diventata un vero e proprio fenomeno mediatici, con una copertura di tv e giornali che nessuna delle altre forze politiche ha avuto, tra ronde e collette alimentari per gli italiani, e l'ombra di un rapporto mai chiarito con il clan Spada. Sorpresa anche per la candidatura civica dell'ex parroco Franco De Donno che con la sua lista appoggiata dai partiti della sinistra (che non presentavano però i loro simboli) ha superato l'8% dei consensi.