Il referendum consultivo sul futuro di Atac è stato solo apparentemente un fallimento per il comitato promotore. Certo, la scarsa affluenza – solo il 16,38% dei romani si è recato alle urne – rende più difficile presentare un bilancio positivo per i sostenitori del ‘Sì', ma c'è da dire che ha pesato la disabitudine dei cittadini a partecipare a consultazioni cittadine, la difficoltà di presentare come necessario un referendum solo consultivo e lo stimolo dato dal quorum ai sostenitori del ‘No' a non recarsi alle urne per decretarne il fallimento. Metterei da parte i supposti boicottaggi dell'amministrazione comunale, che sicuramente poteva scegliere più saggiamente di portare i romani alle urne prima e in coincidenza con un'altra tornata elettorale (fosse anche solo per risparmiare), ma dare la colpa agli avversari per la diserzione dei seggi è sicuramente una scorciatoia.
Ma allora perché il referendum non è stato un fiasco per i sostenitori della liberalizzazione? Perché ha posto al centro il tema del futuro di Atac e del trasporto pubblico locale ponendo la liberalizzazione e l'ingresso dei privati come un orizzonte inevitabile per il futuro della municipalizzata del Campidoglio, costringendo a mettere questa ipotesi davvero all'ordine del giorno. Di fronte al disastro del presente, fatto di bus in fiamme e di un servizio insufficiente, si è proposta la liberalizzazione come un'innovazione che senza dubbio avrebbe giovato ai cittadini, e attorno a una proposta presentata come alternativa ‘naturale' si è organizzato un campo di forze eterogeneo, attivo anche se minoritario e in grado di colonizzare lo spazio mediatico e il senso comune.
Dall'altra parte invece i sostenitori del ‘No' sono apparsi per lo più come i difensori dello status quo, divisi e senza un ragionamento forte sul futuro dell'azienda: i sindacati, giustamente, hanno difeso i diritti dei lavoratori messi a rischio da un cambio di gestione della produzione del tpl; il M5s si è limitato a difendere la sua azione e il concordato di Atac, sottolineando che ci vuole tempo per risanare l'azienda; la sinistra (sindacale, sociale, politica) si è senza dubbio mobilitata, ma molto al di sotto delle sue possibilità, soprattutto senza proporre una visione per il futuro del trasporto pubblico locale. Atac è un'azienda virtualmente fallita, il concordato preventivo mette pesanti vincoli alla capacità di spesa nel prossimo futuro e ha un miglioramento del servizio. Un'alternativa al ‘Sì' sarebbe dovuta partire da qui: da spiegare perché il trasporto pubblico non è una merce come un'altra, disegnando un'alternativa fatta di politiche industriali, risorse, controllo popolare.
Il prossimo appuntamento è nel 2021, quando chi governa il Campidoglio si troverà a decidere sulla messa a gare del servizio o l'affidamento in house. Il fronte del ‘Sì' alla liberalizzazione costruito attorno all'appuntamento referendario, c'è da scommetterci, non si farà trovare impreparato. Lo stesso dovrebbe fare chi propone un'idea diversa di trasporto pubblico, lontano dall'immagine di fallimento del presente, raccontando ai cittadini, agli utenti e ai lavoratori di Atac il proprio progetto in maniera chiara.