È esplosa dopo la lettura della sentenza di primo grado la rabbia di Marina Conte, la mamma di Marco Vannini ucciso a 19 anni in casa della famiglia della fidanzata Martina Ciontoli. “Mio figlio sta dentro un fornetto e questi stanno a spasso, è una vergogna”, ha urlato, mentre gli animi in aula si scaldavano. Assenti tutti gli imputati. Quattordici anni di carcere la condanna per Antonio Ciontoli, per omicidio volontario con dolo eventuale, tre anni per la moglie Maria Pezzillo e per i figli Martina e Federico per omicidio colposo. Assolta la fidanzata di Federico, Viola Giorgini accusata della sola omissione di soccorso.
"Io ho sempre confidato nella giustizia ma purtroppo la giustizia sta dalla parte di chi ammazza. A questo punto è meglio essere delinquenti che bravi cittadini – ha dichiarato a Fanpage.it Marina Conte – Riconsegnerò la mia tessera elettorale al comune perché mi vergogno di essere una cittadina italiana. Mio figlio è morto all'età di vent'anni e nessuno, nessuno, dice qualcosa in favore di questo ragazzo. Qui gli stessi avvocati hanno parlato di versione mediatica, che loro non possono più vivere. E la vita mia? E la vita di mio marito? E la vita della mia famiglia con mio figlio che sono tre anni che non c'è più".
L'omicidio di Marco Vannini
I fatti risalgono al 17 maggio del 2015 quando il 118 arriva a casa Ciontoli a Ladispoli, comune sul litorale a sud di Roma. Qui trovano il ragazzo privo di sensi ma nessuno che gli sappia spiegare cosa sia accaduto e perché Marco stava male. I sanitari poi trovano un foro in un fianco ma ormai è troppo tardi: il proiettile esploso per errore da Antonio Ciontoli ormai sarà fatale per il giovane. Comincia così una catena di omissioni e coperture reciproche tra i membri della famiglia, che provano in tutti i modi prima a far sparire le prove di quel colpo di pistola, poi ritardano la richiesta di soccorsi e infine tentano di concordare una versione dei fatti che li salvi da ogni responsabilità.
La famiglia Ciontoli, un "branco" per l'accusa
Una condotta che ha portato l'accusa a descrivere la famiglia come "un branco". "Hanno taciuto tutti la verità supportando con il silenzio e le menzogne l'operato del padre mentre Marco emetteva urla disumane. – ha sottolineato nelle ultime fasi del processo il pm Alessandra D'Amore – Invece avrebbero potuto chiamare il 118 dicendo subito quello che era successo perché lo sapevano, tutti e quattro, invece hanno scelto di mentire".