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Tor Bella Monaca, i clan spadroneggiano grazie all’abbandono delle istituzioni: lo scrive il giudice

Nel dispositivo firmato dalla giudice per le indagini preliminari Paola Di Nicola Travaglini, che ha portato ieri all’arresto di 42 persone, una dettagliata analisi del contesto sociale e urbano in cui il potere dei clan di Tor Bella Monaca è nato e si è consolidato, imponendo il terrore ma anche godendo di un vasto consenso. “Le libertà democratiche, i basilari principi che connotano la civile convivenza e lo Stato di diritto sono sostanzialmente inesistenti da anni”.
A cura di Valerio Renzi
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"Hanno potuto prendere potere, in modo pressoché incondizionato, grazie ad un contesto caratterizzato da ‘legalità debole' in cui le forze dell'ordine, nonostante enormi sacrifici e professionalità, fanno fatica ad entrare in alcune zone del quartiere e le persone oneste hanno paura di esistere e attraversano interi cortili, controllati da spacciatori e vedette, come ombre che non devono vedere e non devono sentire, private dei loro diritti fondamentali". Così si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dalla giudice per le indagini preliminari Paola Di Nicola Travaglini, che ha portato all'arresto ieri di 42 persone ritenute facenti parte di un'organizzazione criminale che gestiva la piazza di spaccio in largo Ferruccio Mengaroni e in via Scozza. Nel dispositivo si legge un'approfondita analisi del contesto in cui le condotte criminali del gruppo sono inserite. Parole che suonano come un vero e proprio atto d'accusa contro le istituzioni, sottolineando l'abbandono a cui è stata lasciata Tor Bella Monaca e il fallimento di un insediamento urbanistico e sociale pensato per dare casa a chi veniva dalle baracche e dai borghetti.

Alla vergogna di una città dove migliaia di persone vivevano da baraccati, si è sostituita la nascita di quartieri ghetto dove l'esclusione sociale ha prodotto la nascita di gruppi criminali di "natura originaria e originale" in grado di "relazionarsi con forza e violenza pur di mantenere il controllo di quella che è considerata una delle più redditizie ‘piazze di spaccio' di Roma e divenuta tale proprio per il livello di degrado e di abbandono in cui è lasciata". È poi la stessa conformazione urbanistica del quartiere a favorire l'attività di spaccio, con i suoi "edifici grigi, altissimi e desolati, a consentire dall’alto e dal basso il controllo del territorio, dello spaccio serrato, del sopraggiungere delle Forze di polizia, con l’uso di sentinelle che si avvisano da una parte all’altra, ostacoli mobili e fissi come le inferriate, depositi temporanei per gli stupefacenti, l’utilizzo di telecamere a circuito chiuso da parte dei clan".

Ma non è una questione di tecnica, è l'abbandono "urbanistico, edilizio e sociale" e "la scarsità di investimenti sui servizi pubblici" in "presenza di residenti appartenenti agli strati più disagiati della popolazione, in condizioni di emarginazione sociale", a rendere possibile l'insediamento di gruppi criminali ma soprattutto il loro consenso. È raro in un dispositivo giudiziario vedere citato un rapporto del Censis, ma la giudice chiama a raccolta fonti diverse per dare ragione del contesto in cui l'organizzazione incriminata è cresciuta e acquisito potere: "Pur ripercorrendo i tratti tipici dei quartieri periferici delle grandi città questa zona costituisce un laboratorio unico nel suo genere, autoctono e diverso dagli altri, che proprio per questo richiede di operare una decodificazione attenta e originale dei segnali da parte delle forze di polizia e dell’Autorità giudiziaria, aggiornando l’attività interpretativa con schemi che fuoriescono dai limiti della territorializzazione degli strumenti giuridici".

Il monito della giudice sembra chiaro: per estirpare il consenso e il radicamento di organizzazioni criminali, bisogna intervenire sui fattori che la generano: un alto tasso di dispersione scolastica nella fascia dell’obbligo; un alto numero di minori e giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali (27% su base regionale); un elevato numero di giovani assistiti dal SERT; un elevato numero di portatori di handicap e di minori in stato di indigenza; tassi molto significativi di disoccupazione giovanile, femminile e di lavoro nero. Una presenza quella dei clan che impone il controllo militare del territorio, dove "ciascuno deve cedere il passo a quella dei capi delle piazze di spaccio e le libertà democratiche, i basilari principi che connotano la civile convivenza e lo Stato di diritto sono sostanzialmente inesistenti da anni". Ma accanto al terrore imposto dalla minaccia e la disponibilità ad usare la violenza (anche armata), c'è il consenso dei gruppi criminali che garantiscono un welfare parallelo a quello (assente) delle istituzioni, tanto che la stessa giudice è costretta ad ammettere che l'utilizzo delle vedette è quasi superfluo, visto che "sono gli stessi cittadini ad avvisare gli spacciatori che sono in arrivo i Carabinieri".

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