Perché Mafia Capitale non è mafia secondo i giudici: le ragioni della sentenza
Lo scorso 20 luglio i giudici hanno pronunciato nell'aula bunker di Rebibbia il verdetto di sentenza nei confronti di 46 imputati per Mafia Capitale, l'inchiesta che ha sconvolto Roma ormai quasi tre anni fa. Condanne pesanti per 41 imputati su 46. Vent'anni di reclusione per Massimo Carminati e diciannove per Salvatore Buzzi, considerati i vertici del sodalizio criminale in grado di corrompere politici e funzionari e di indirizzare commesse e appalti.
In tutto i giudici del Tribunale di Roma hanno comminato 315 anni di carcere, ma non hanno riconosciuto l'aggravante mafiosa per gli imputati, l'articolo 416 bis che era la vera partita simbolica e giudiziaria, il riconoscimento che Mafia Capitale rappresentasse una "mafia autoctona e originaria" come sostenuto dalla procura. Una ‘sconfitta' pesante per piazzale Clodio, motivata in oltre cento pagine su un dispositivo di 3200 contenente le motivazioni della sentenza, depositato oggi in tribunale.
Le caratteristiche dell'associazione a delinquere di stampo mafioso
Per prima cosa i giudici sottolineano come, per ravvisare l'esistenza di un aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso, devono essere presenti i tre tratti caratteristici della forza d'intimidazione, dell'assoggettamento e dell'omertà. Elementi in forza dei quali l'associazione, riconosciuta nel contesto nel quale opera in quanto tale, riesce ad ottenere "profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri" e ad assoggettare soggetti istituzionali, singoli cittadini e intere comunità.
L'associazione mafiosa dunque esiste di per sé, è un fatto riconosciuto socialmente ancor prima che per via giudiziaria nel contesto in cui chi ne fa parte opera, e può raggiungere i suoi obiettivi anche senza commettere reati per raggiungere i propri obiettivi, propria in virtù della sua forza e capacità d'assoggettamento. Un elemento che vale sia per le così dette mafie tradizionali – sottolineano con forza i giudici – sia per sodalizi criminali riconosciuti come mafiosi pur non chiamandosi ‘ndrangheta, camorra e mafia: è il caso per esempio della sentenza di condanna per gli appartenenti al Clan Spada, arrivata di recente per il gruppo egemone a Nuova Ostia.
Come si riconosce una nuova organizzazione mafiosa
I giudici sottolineano come "per le associazioni non riconducibili alle mafie storiche" occorre "accertare se si siano verificati atti di violenza e\o di minaccia e se tali atti – al di là della finalizzazione alla commissione di specifici reati, realizzati in forma associata da una comune associazione per delinquere – abbiano sviluppato intorno al gruppo un alone permanente di diffuso timore, tale da determinare assoggettamento ed omertà e tale da consentire alla associazione di raggiungere i suoi obiettivi proprio in conseguenza della “fama di violenza” ormai raggiunta".
Serve insomma una "riserva di violenza" non solo potenziale (la capacità di metterla in atto), ma "concreta" . Una "riserva di violenza" che per i clan delle mafie storiche consiste nella fama già acquistata, ma non varrebbe dunque per le mafie di nuova formazione: "La fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. richiede, infatti, l’attualità e la concreta operatività del metodo mafioso (dirimente in tal senso l’uso, nella formulazione normativa, dell’indicativo presente “… coloro che ne fanno parte… si avvalgono ( e non : possono avvalersi o si avvarranno) della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà…”).
Per tirare le somme: "Dare spazio, nella interpretazione della norma e nel caso delle mafie non derivate, al tema della riserva di violenza, intesa come violenza solo potenziale, consapevolmente prefigurata dagli associati ma rivolta al futuro, condurrebbe ad una interpretativa estensiva non ammissibile". Per farlo servirebbe "un'innovazione legislativa della fattispecie criminosa", innovazione per i giudici "auspicabile "ma "fuori dell’ambito della giurisdizione".
Riconosciute due distinte associazioni a delinquere
Come già noto i giudici poi riconoscono l'esigenza di due distinte organizzazioni a delinquere. Da una parte il sodalizio che si ritrovava attorno al distributore di benzina di Corso Francia, che vede Massimo Carminati e Riccardo Brugia operare nel settore delle estorsioni e del recupero crediti "in proprio" o per conto di altri. Dall'altra il gruppo facente capo al sodalizio economico tra Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, e comprendente imprenditori, dirigenti e dipendenti delle coop di Buzzi, e anche esponenti politici e funzionari pubblici.
Due distinte organizzazioni che, nonostante il punto in contatto rappresentato da Carminati e Brugia, avrebbero operato in ambienti diversi e con finalità e obiettivi distinti, senza essere mai sovrapponibili o fondersi in un solo vincolo associativo. "Ritiene dunque il Tribunale che i due mondi – quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici – siano nati separatamente e separati siano rimasti, quanto a condotte poste in essere e consapevolezza soggettiva dell’agire comune", scrivono i giudici.
Il gruppo di Corso Francia: estorsione e usura
Nessuna delle due organizzazioni avrebbero poi separatamente rappresentato un'associazione a delinquere di stampo mafioso. Il gruppo che chiameremo di "Corso Francia", secondo quanto ricostruito dalle stesse indagini e riconosciuto nelle condanne, con "gli atti di intimidazione che integrarono la coazione della altrui volontà – determinando i singoli debitori a pagare o ad accettare ri-negoziazioni dei debiti ancora più svantaggiose rispetto al prestito iniziale – provocarono certamente nelle vittime uno stato di grave preoccupazione e timore".
Si rende così palese l'utilizzo della violenza e dell'intimidazione, e con tutta probabilità anche dell'omertà per paura di ripercussioni, ma si tratta di metodi violenti però "direttamente finalizzati a raggiungere il risultato per il quale erano impiegati" non furono tali da determinare, nella collettività, un perdurante stato di timore grave, così noto e diffuso da produrre, con l’esplicarsi della forza intimidatrice dell’associazione ed a prescindere dalle singole vicende, una generalizzata situazione di assoggettamento ed omertà nel contesto territoriale : nè sull’intero territorio urbano né nel quartiere ove il gruppo operava".
Sono undici gli episodi criminali ravvisati in tre anni per l'associazione costituita da Carminati, Brugia, Calvio e Lacopo. Episodi tutti collocati "in un contesto relazionale e territoriale particolarmente limitato, composto in massima parte o da conoscenti di vecchia data di Carminati e Brugia o da soggetti che comunque frequentavano assiduamente la zona di Corso Francia ed il distributore di benzina gestito dai Lacopo". "Le stesse caratteristiche dei crediti – sottolineano i giudici – la maggior parte di limitato importo e spesso connessi a forniture non pagate, fanno apparire poco proporzionata alla obiettiva consistenza dei fatti la costituzione di una associazione di carattere mafioso".
Corruzione o mafia? L'associazione a delinquere con al vertice Buzzi e Carminati
In sostanza per i giudici le attività del gruppo di Carminati e Brugia compiva un'attività criminale, ma non di proporzioni e di visibilità tale da costituire un'associazione mafiosa di tipo nuovo. Più estesa l'associazione criminale con al vertice Buzzi e Carminati, che era in grado di accaparrarsi risorse pubbliche e di determinare l'assegnazione di risorse, corrompendo funzionari e politici, alcuni dei quali riconosciuti come facente parte dello stesso sodalizio.
Ma anche in questo caso per i giudici non ci sarebbero gli estremi per ravvisare l'aggravante del metodo mafioso, soprattutto per l'assenza di violenza e intimidazione, facendo ritenere sufficiente la fattispecie di reato di corruzione. Buzzi e Carminati, il ‘Mondo di Mezzo' tra la criminalità di strada (il ‘mondo di sotto') e le istituzioni e l'economia legale (il ‘mondo di sopra'), erano in grado di mediare interessi e farli convergere, ricorrendo laddove necessario a concedere benefit, favori e anche somme consistenti di denaro, ma non in virtù del riconoscimento della forza violenta dell'organizzazione. Ecco cosa scrivono i giudici:
L’impossibilità di attribuire mafiosità all’associazione volta al conseguimento illecito di appalti pubblici mediante intese corruttive: ai fini del reato di cui all’ art. 416 bis c.p. è necessario l’impiego del metodo mafioso e, dunque, il reato non si configura quando il risultato illecito sia conseguito con il ricorso sistematico alla corruzione, anche se inserita nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche ove queste si rivelino particolarmente pericolose perché capaci di infiltrazioni stabili nella sfera politico-economica.
Rimane ovviamente il tema politico e sociale dell'inchiesta, che fa percepire come "mafioso" tale "sistema di cordate" dai cittadini, ma che esula dalle fattispecie di reato e dalle decisioni dei giudici.
Il prestigio criminale di Massimo Carminati
"Tu non sai chi sono io, controlla su internet… a me non me ne frega un cazzo io passo a Fastweb". Questo il testo della ormai celebre intercettazione in cui Massimo Carminati minaccia un operatore di un call center per ottenere l'allaccio della linea internet presso la sua abitazione. Entrato nel pantheon criminale come uno della Banda della Magliana, Carminati è il ‘Nero' di Romanzo Criminale, passato quasi indenne per processi che hanno fatto la storia del paese, dall'omicidio Pecorelli a quello per la strage di Bologna, a metà tra criminalità comune ed eversione neofascista, la sua fama lo procede.
Ma anche la caratura criminale di Carminati, il suo appartenere al ‘mondo di sotto' indiscusso prestigio, che lo fa parlare con boss e chiamare in causa per mediare conflitti o elargire consigli, bastano a fare di lui un boss di un'organizzazione mafiosa. I giudici chiariscono anche come le organizzazioni di cui discute il processo non possono essere considerate come una filiazione della Banda della Magliana, per cui tra l'altro, in sede di sentenza definitiva, non è stata riconosciuta l'aggravante del metodo mafioso (fatto che rappresenta terreno di dibattito storico e politico, ma non può esserlo in sede giudiziaria essendo una sentenza definitiva.