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Per continuare a non tacere: la pratica della parola di don Roberto Sardelli

Il ricordo di Marta Bonafoni di don Roberto Sardelli, il prete ultimo tra gli ultimi che ha legato la sua storia a quella della scuola 725, tra le baracche degli emigrati all’Acquedotto Felice. In due lettere “Non Tacere” e “Per continuare a non tacere”, che denunciavano i mali e le ingiustizie di Roma, il suo insegnamento più grande.
A cura di Redazione Roma
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Ho conosciuto don Roberto Sardelli negli anni della radio.

Arrivava per le interviste sempre puntualissimo, con la sua valigetta nera, il cappello, la sciarpa incrociata sul petto, gli appunti sotto braccio scritti fitti fitti e mescolati ai ritagli di giornale. Ogni intervista era una lezione, di vita e di lotta, per tutti noi: la redazione si fermava, si faceva silenzio per seguire il rigore delle sue parole e la lucidità del suo pensiero, denunce e proposte che parlavano di Roma. La nostra città.

Di don Sardelli anche in queste ore si ricorda l'impegno tra i baraccati dell'Acquedotto Felice, quella lettera "Non tacere" scritta a cavallo tra gli anni '60 e '70 che gridava contro l'emarginazione dei poveri e dei poverissimi abitanti di Roma e chiedeva per loro diritti, casa, scuola, dignità. Meno si rammenta un'altra lettera, "Per continuare a non tacere", che don Roberto coi suoi (ex) ragazzi decise di scrivere nel 2007 e di indirizzare all'allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, per denunciare ancora una volta – sostanzialmente inascoltato – le profonde disuguaglianze che una città per tanti aspetti moderna ed europea continuava a tollerare dentro i suoi quartieri. Sono esattamente questi gli anni in cui il mio lavoro ha incrociato il pensiero di don Roberto: indignazione, ribellione, consapevolezza sono i sentimenti che mi vengono in mente per primi ripensando a lui e alle nostre chiacchierate, spesso durante i nostri viaggi in macchina da un punto all'altro della città, io alla guida – a interrogarne pensiero e memoria – lui accanto a me, rosso in viso quando si arrabbiava per le ingiustizie del mondo, ma sempre con gli occhi magnanimi, di fronte a chiunque.

Don Roberto non amava le gerarchie e i capi, di qualunque pasta fossero fatti, le istituzioni repubblicane tanto quanto la Chiesa. Non perdonava loro la negligenza con cui, pur avendone i mezzi, si mettevano al lavoro per una società più giusta. Amava invece i poveri, al punto da dedicare tutta la sua vita a formarli per consegnare nelle loro mani gli strumenti della loro stessa emancipazione. Immaginava una lotta non per delega ma attraverso l'esercizio di un protagonismo del proletariato, per lui politica e Vangelo erano la stessa cosa, il terreno e il celeste insieme.

Negli ultimi anni la sua voce sfuggiva ai più, distante da Roma non poteva donarci la sua lettura puntale dei fatti: la città dell'indifferenza, gli sgomberi dei migranti, l'anima fragile, ma allo stesso tempo la resistenza dei tanti mondi della solidarietà, dell'inclusione, della fratellanza. Roberto non commentava, ma in fondo il suo pensiero era ed è già tutto scritto, una lezione che vale oggi più che mai: "Occorre – diceva – un grande sforzo comune per ricomporre i frammenti. Che parta dalle scuole, dalle sedi di partito e di sindacato, dai centri religiosi e dai centri sociali. Occorre un progetto per il futuro".

Non tacere è parlare, diceva ancora don Roberto Sardelli. Oggi è questo l'insegnamento più grande che ci lascia.

Marta Bonafoni è una giornalista prestata alla politica. Già direttrice di Radio Popolare Roma attualmente è la capogruppo della Lista Civica Zingaretti alla Regione Lazio, dove si trova al suo secondo mandato. 

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