E' stato presentato alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, alla presenza di esponenti di forze dell'ordine e di molti magistrati il romanzo del sostituto procuratore Cristiana Macchiusi: “Ragazze in vendita” incentrato sull' inchiesta da lei condotta e nota alle cronache con l'orrida denominazione: “le baby squillo dei Parioli”. Il volume (già presentato nel Luglio scorso) in realtà è una sorta di back stage di come sono state condotte le indagini e il tipo di pregiudizio applicato. Macchiusi nei panni dell'alter ego di finzione, Chiara Costanza, intreccia fatti della sua storia privata con il caso che ha scosso l'opinione pubblica tre anni fa: due adolescenti di 14 e 15 anni si sono prostituite per alcuni mesi in un appartamento di un quartiere romano.
Peccato però che non sia una scrittrice a scrivere ma la stessa pm che ha istruito il processo, che detto processo non sia affatto concluso, giacché molti degli imputati (clienti e sfruttatori) ancora aspettano la sentenza della Cassazione. Tra questi, S.D, la madre di una delle due minori coinvolte. Sulla donna pesa l'accusa infamante di sfruttamento di prostituzione della figlia, e se confermata, dovrà scontare sei anni di carcere. Una sentenza decisamente controversa che appare proprio il frutto di una tesi (dopo questo libro ne abbiamo anche le prove), e che poggia su un punto fondamentale: si è dato per scontato che la ragazza nel ripetere all'infinito che la madre non sapesse nulla, ma sapesse solo del suo spaccio del fumo, abbia mentito per proteggerla. Sorprende, poiché mamma e figlia sono state separate da subito e hanno riportato ai magistrati le stesse cose e circostanze.
Le conseguenze delle sentenza finora giunta in Appello sono state devastanti per la donna che non ha più la potestà genitoriale, per la ragazza (ossia colei che per sublime paradosso sarebbe “la vittima” da proteggere), e suo fratello (che non c'entrava niente). E visto che il padre è inesistente da sempre, i due ragazzi sono vissuti, in questi tre anni, separati per legge dalla madre che non poteva vederli né parlare con loro, e confinati in case famiglia. Ma hanno sempre e solo desiderato fortissimamente di rivederla. La ragazza ha sviluppato un senso di colpa colossale nei confronti del dolore arrecato alla madre, e anche il ragazzo non c'è male: il padre che sparisce, la madre che gli viene sottratta. Lui che vive abbandonato a se stesso in una casa famiglia e si chiede cosa può mai aver fatto di male. E chissà quale sarà l'esito della Cassazione. Basta solo avere un cuore per capire, in fondo, non occorre essere bravi scrittori o conoscere il mondo.
La vicenda, di tre anni fa, per i connotati e l'ambientazione “borghese” destò da subito una scomposta attenzione mediatica, e ispirato una superfetazione di storie: sono stati pubblicati due libri, di cui uno diventerà una fiction Rai, realizzati fiumi di talk, riflessioni, articoli, dibattiti e inchieste. A volte anche pescando nel torbido e grattando i fondi di tutti i barili con punte horror da Barbara D'Urso a Selvaggia Lucarelli, tutti alla ricerca finale del “colpevole”, giacché grosso modo i clienti l'hanno fatta franca. Soprattutto, in assenza dei padri, le genitrici delle due ragazze sono state immediatamente e rozzamente caratterizzate: da una parte “la madre cattiva”, S. D. che avrebbe spinto la figlia a prostituirsi e si è fatta dare anche i soldi per quell'attività della figlia (come pretende l'accusa), dall'altra, la “mamma buona”, quella cioè che ha pagato l'investigatore che ha pedinato la figlia e che ha scoperto il caso.
Che ci fosse stata più di una forzatura in quel tipo di accusa a S.D è stata da subito un'ipotesi giornalistica impossibile da far passare, anche solo accennare, giacché procura e media perfettamente allineati cercavano un colpevole da gettare nelle fauci degli spettatori scandalizzati. Quale figura-archetipo migliore della Mater terribilis che angoscia e pervade i sonni e le fiabe dell'infanzia? Anzi, perché non dare proprio tutta la colpa alla Mater terribilis anche per aver generato i Clienti, maschi infantili e repressi, in cerca della sessualità sostituiva delle loro stesse figlie, che vorrebbero magari stuprare?
Il romanzo
Il libro della pm denunucia perfettamente la tesi che le sue indagini (coordinate dall'aggiunto Maria Monteleone) hanno voluto dimostrare, si riportano dettagli delle intercettazioni che inchioderebbero S.D. riempiendo e inventando suggestivamente laddove ci sono dei vuoti di logica, che invece sono oggetto di ricorso per la prossima difesa di S.D in Cassazione, che appunto ancora non si è pronunciata. Il che rende tutto esageratamente inappropriato. Ci chiediamo quanto legale e permesso.
Di sicuro il romanzo non è “liberamente” tratto dalla storia. Anzi, è una copia quasi pedissequa e evidentissima per chi conosce le carte e ha seguito il caso. L'indagine, non è solo un "motivo ispiratore”, come si è detto nella presentazione ma una parte fondante della struttura, oltre che del titolo del libro, buono per il marketing, e che semplicemente l'autrice sfrutta per “fare i conti col proprio passato”. Il che non è male se si pensa alla parola "degrado" e "vendita" ripetuta in tutte le carte processuali.
La protagonista di finzione, la pm Chiara Costanza, si ritrova in procura nell'agosto 2013 (come è avvenuto nella realtà del resto) ad aprire le indagini a seguito del report di un detective ingaggiato dalla madre di una delle due ragazzine. Chiara Costanza ha una storia nel cassetto della sua coscienza e memoria: due amiche dell'infanzia, a Genzano, si sono prostituite. Una, quella più spregiudicata dell'altra, aveva una mamma che l'autrice chiama “madre-nonnina” (il mondo delle fiabe è molto presente nella mente e nello spirito della nostra), con i capelli raccolti, tutta educata e per bene. Non sapendo farsi una ragione del fatto che una tizia ricca con una madre che si presenta bene faccia cose brutte, l'autrice si lancia nella riflessione:
No, quelle non potevano essere scelte fatte per reazione, opposizione, vendetta. Piuttosto il marcio doveva partire da dentro.O ce l’avevi oppure no. E non era colpa tua. Era qualcosa che ti infettava l’anima, non c’entravano i principi che ti avevano inculcato, le attenzioni che ti avevano riservato. La putrefazione partiva da là e a mano a mano maturava, si espandeva, ti distruggeva. Proprio come capita con le mele.
Alle volte basterebbe un esorcista per estirpare il male. Ma c'è un'altra storia ancora, diciamo un “doppio fuoco”: l'autrice racconta che era legatissima a uno zio giacché aveva un rapporto pessimo con sua madre, depressa e distante. Improvvisamente si scopre che questo zio è un brigatista perché un giorno l'arrestano, con gran disperazione della famiglia. Di nuovo stacco temporale e rieccoci negli uffici della procura. Da subito si delinea la “mamma buona” che l'autrice chiama Paola Farinelli. Proprio come nella fiaba mediatica, e nella tesi delle indagini, è buona anche nel romanzo di Macchiusi (ma per un attento lettore delle carte non è così buona nella vita). Comunque è lei che ha potuto pagare il detective, e per questo riscuote tutta l'ammirazione della pm Chiara. Col tailleur bianco le siede davanti (i dettagli sull'apparire – essere “per bene” meriterebbero una riflessione a parte) e “In un'altra situazione sarei diventata amica di quella donna”, ci dice di aver pensato.
Tralasciamo (e che Dio perdoni l'autrice) come viene letterariamente trattata invece la ragazzina che “urla” quando apprende che la madre è stata arrestata ma che si dà per scontato abbia raccontato solo bugie per proteggerla. Anche i verbali riportano il pianto ininterrotto della ragazza davanti alle due pm, forse uno dei momenti più forti e sconvolgenti delle montagne di carta e intercettazioni. Un punto su cui una scrittrice si sarebbe dilungata per almeno cento pagine, una sceneggiatrice americana avrebbe fatto sei film, ma che l'autrice Macchiusi liquida in un battibaleno, e con un cinismo straordinario.
Ma arriviamo all'ultimo capitolo, scusandoci per lo spoiler: Paola Farinelli, ovvero “mamma buona”, ("mamma cattiva"non ha nome invece, si chiama solo mostro) si scopre essere la figlia del carabiniere ucciso dallo zio brigatista della pm. Perciò si è passati dall'ammirazione sconfinata per quella donna che può pagarsi detective per seguire la figlia che non sa educare e amare, ai baci e abbracci con la pm che risarcisce finalmente con il romanzo la ferita del suo passato. Il capitolo si chiama Karma. E qui lasciamo ai buddisti l'indignazione, ma anche ai figli di S.D. che un giorno leggeranno questo libro e che faranno un collegamento tra il nome dell'autrice, la ferocia della loro vita e le istituzioni beffarde fino alla fine. Appunto, a proposito di Karma.
Così, in questi tre anni mentre la ragazzina “da proteggere” che compare nel capitolo dell'autrice dal titolo “Baby Squillo” (alla faccia delle petizioni e delle raccomandazioni e della violazione della Carta di Treviso di non parlare delle vittime come colpevoli) si dannava sul serio l'anima e si friggeva di dolore assieme al fratello per l'accaduto, Macchiusi che ha accusato e chiesto l'arresto sul serio di sua madre, si rinvigoriva l'ego nella composizione di questo librino, maneggiando rozzamente le ferite più dolorose della vita della sola vera vittima della vicenda, minore per giunta. Non solo. L'autrice ha rivelato anche un dettaglio fisico reale della ragazza (la figlia di "mamma buona"è detta invece femme fatale o gatta), ha poi usato nel testo (bisognerebbe saper scrivere per scrivere) anche dei nomi propri che pure compaiono nelle carte, ma che hanno a che fare con congiunti – minori – di un giudice del Consiglio di Stato, indagato per prostituzione minorile.
Giova ricordare che all'epoca, dagli uffici della procura, si raccomandavano i giornalisti “di non far uscire i nomi dei clienti” per paura “di possibili suicidi”.
Del resto, dove non arriva Macchiusi giunge la sua collega giudice Paola Di Nicola che ha condannato un cliente sempre della stessa ragazzina – senza padre e con la madre sul procinto di entrare in carcere se confermate le accuse – anziché al risarcimento di ventimila euro (magari per andare all'univeristà), a comprare alla sua vittima una montagna di libri su donne e femminismo. Compreso quello di Melania Mazzucco: la scrittrice amica della magistrata ha infatti curato la prefazione del libro della stessa (ma quanto scrivono?!) dal titolo appunto “La giudice”. Una riflessione su essere magistrati in quanto donne.
Decisamente è giunto il momento di fare delle scuse significative a questa ragazza e alle femministe di rinsavirsi.