Non si può che accogliere con un gran sorriso la decisione del sindaco di Roma Ignazio Marino acclamata dalla presidente Boldrini di fare guerra alle affissioni sessiste nella capitale. Dice l'assessore al Commercio Marta Leonori: “Nel prossimo bando di gara che sarà pubblicato a ridosso dell’estate sarà previsto anche un controllo da parte di un organismo, che dovrà giudicare la conformità del messaggio della pubblicità alle regole di non discriminazione che abbiamo inserito nel regolamento. Abbiamo contattato l’agenzia nazionale che fungerà da giudice terzo”.
Quindi ora c'è un organismo che giudica. La stessa cosa più o meno l'aveva detta l'estate scorsa 2014: “Le associazioni di settore incontrate hanno accolto favorevolmente la nuova disciplina. La nostra città rifiuta qualsiasi tipo di discriminazione sia di genere, sia per le libertà civili e religiose e con questa regola testimonia questo suo carattere”. E la nuova disciplina normava appunto quanto affermato oggi. Ma senza quella disciplina basterebbero anche la Costituzione e una tonnellata almeno di direttive europee.
Comunque diciamo di che si tratta concretamente. D'ora in poi no alle gigantografie in spazi pubblici romani di donne in posizione erotiche per pubblicizzare prodotti di vario consumo: automobili, profumi o acque minerali, etc, via a slogan zeppi di allusioni e doppi sensi (uno per tutti: “la patatina tira”). Via anche a pubblicità che assegnano un ruolo convenzionale alle donne, come per esempio “la donna in cucina”. E infatti: perché non c'è mai l'uomo? Come mai gli uomini, se lavorano come le donne, non vengono mai rappresentati in ruoli domestici, se non nei panni di chef molto glamour? Perché gli uomini non vanno mai a prendere i figli a scuola nelle pubblicità? No perciò alla pubblicità di una donna che lava e che stira. Perché l'uomo non si stira mai una camicia da solo? Eppure ce ne sono eccome. Allora perché affermare cose che non sono vere?
Includiamo perciò una realtà mutata già da molto tempo, in cui è auspicabile ad esempio la divisione dei ruoli in famiglia, e raccontiamo quella anche nella pubblicità (ricordiamo Ikea e la stanza per i due gay) sperando che mentalità e perfino la politica cambino. Ma il punto è anche un altro: è che nel 2015 rieccoci a dire le cose che si dicevano una decina di anni fa magari con meno successo di oggi: e questo forse è il risultato di quelle battaglie silenziose e tenaci di associazioni di femministe, di attiviste come Lorella Zanardo, di Emma Bonino che nel 2007 ne fece uno dei punti del suo dicastero di politiche comunitarie, di echi dall'estero, di direttive europee e di conseguente cambiamento dei consumi. Ben venga dunque la seppur ennesima presa di posizione, ma ammesso che non sia l' annuncio per far parlare facilmente di sé. Del resto, prendere una posizione a favore delle donne (senza rigorosamente darle seguito) è uno sport comunicativo politico semplicissimo. Non costa niente, e molte donne poi ti acclamano. E anche loro poi votano.
Perfino Gianni Alemanno, senza capire bene cosa stesse dicendo, a un certo punto del suo mandato annunciò la guerra ai manifesti sessisti, aiutato anche dall'allora ministra alle Pari Opportunità Mara Carfagna che però usciva lei stessa da quelle pubblicità e aveva quindi un ruolo scomodo per protestare. Comunque, puntualmente non avvenne nulla di quanto annunciato anche perché tutte queste battaglie fatte da destra poiché si iscrivono nella tradizione perbenista e reazionaria hanno sempre qualcosa di censorio e repressivo, per cui si finisce con l'augurarcisi che non si vieti un bel nulla. Della stessa epoca e tradizione fu ad esempio l'ordinanza della sindaca di Genova Marta Vincenzi contro le prostitute discinte, che però parevano educande vicino alle immagini della tv di stato, o in confronto alla violenza sessista con cui veniva pubblicizzata una colla per il legno o un pannello solare e con cui si tappezzavano le città italiane.
Con le immagini stereotipate che si intendono bandire (dalla tv alla pubblicità diffusa in qualsiasi modo), da almeno trent'anni, viene veicolata un'idea del corpo femminile medium di un prodotto da vendere, conformemente al concetto di pin up degli anni '30, appello alle pulsioni maschili (come se poi non fossero anche le donne ad acquistare), e vettore per l'acquisto. Le immagini stereotipate femminili in realtà asseriscono una visione del mondo, ne suggeriscono una lettura inconscia e una interpretazione, stabiliscono e normano un ruolo che si legittima – autorevolmente- nello spazio pubblico, ripetuto all'infinito.
Il Financial Times del 2007 pubblicava un articolo dal titolo “Naked ambition” (parafrasando il titolo di un libro sul complicato rapporto con le donne di Gandhi) di Adrian Michaels, il giornalista britannico era colpito ovviamente non per questioni di “pudore” ma per l'ignoranza e l'arretratezza della visione del mondo : ancora le donne identificate con l'oggetto da pubblicizzare in pose erotiche, o pornografiche ancora quelle donne in tv. “I passeggeri che arrivano all'aeroporto di Roma Fiumicino” scriveva Michaels “si trovano di fronte a una donna con un grandissimo seno e una scollatura fino allo sterno. Ma soprattutto aggiungeva “quelli provenienti dagli Stati Uniti o dal Regno Unito trovano questa visione delle donna arcaica. Dal mio trasferimento a Milano, tre anni fa” — scrive Adrian Michaels —“mi sono chiesto perché nessuno sembri preoccuparsi dell’uso incongruo che viene fatto della donna nella pubblicità e in tv… Davvero gli italiani, e in particolare le italiane, ritengono accettabile vendere quiz in prima serata stimolando i genitali maschili invece del cervello?”. Non solo le donne protestavano senza ascolto (ci sono volute le orge di Berlusconi per far uscire riflessioni) ma l'articolo fu duramente attaccato: come si permetteva il Financial Times di giudicarci così. Sono gli stessi che sbeffeggiano, oggi, le prese di posizione di Laura Boldrini, e l'attuale decisione di Ignazio Marino.