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“La ragazza con l’ombrello”, quel racconto di redenzione di Doina dal carcere

In carcere Doina Matei aveva partecipato ad un concorso letterario “Racconti dal carcere”. Il suo racconto è arrivato secondo classificato finendo in una raccolta pubblicata da Mondadori. All’interno il ricordo dell’infanzia, l’arrivo in Italia e l’umiliazione della prostituzione, ma anche l’omicidio di Vanessa e il dolore provato.
A cura di Valerio Renzi
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Oggi a Doina Matei è stata revocata la libertà vigilata. Dopo otto anni di carcere per l'omicidio di Vanessa Turri con un ombrello nella metropolitana di Roma, Doina lavorava in una cooperativa a Venezia per accogliere i turisti: ogni sera poi, dopo il lavoro, tornava in carcere. Un percorso riabilitativo lungo e doloroso quello della ragazza di origini romene, che ora rischia di essere cancellato dall'ondata di indignazione provocata da quelle foto su Facebook in cui appariva sorridente, al mare o in gita.

Un'immagine che ha mandato su tutte le furie i genitori di Vanessa Turri, ma anche tanti cittadini indignati che un'assassina tornasse in libertà e si godesse la vita. Doina invece il suo pegno con la giustizia lo sta pagando e lo ha già in parte scontato, e chiedeva solo di avere una nuova possibilità. "Non c'è momento nella mia vita in cui non penso a Vanessa – ha spiegato la giovane detenuta -Quel dolore fa parte della mia vita.  Involontariamente ho procurato la morte ad una ragazza, di una ventenne come me allora. Non posso perdonarmelo". Ma queste parole non sono evidentemente parlare.

A testimoniare il lungo percorso di Doina Matei anche un concorso letterario, "Racconti dal carcere", in cui i migliori scritti sono finiti in un libro edito da Mondadori e intitolato "Sapete chi sono io?". Tra questi c'è anche il racconto di Doina, che s'intitola simbolicamente "La ragazza con l'ombrello", con il quale è arrivata come seconda classificata "per la migliore storia e per la più intensa riflessione interiore".

Eccone alcuni stralci in cui racconta l'esperienza della prostituzione:

Paura e orrore. Un’occhiata, un prezzo, un patto. E poi l’incognita perenne di un volto, forse maschera di un maniaco crudele. Vivevo le notti di marciapiede con lo strazio umiliato di una rinnovata violenza.
Fradicia di me stessa, ogni volta, ogni volto, ogni incontro volevo vomitare. Quelle mani sporche di sperma e di sprezzo mi insudiciavano il corpo, ma l’anima era altrove, volava alta e lontana. Quella melma, quel fango che mi scorreva addosso – mi ripetevo – erano cemento e calce per costruire il mio sogno più grande, la casa per i miei bambini. E quel pensiero forte, costante, un’ossessione quasi, mi aiutava a reggere l’umiliazione e la violenza di quel lurido mercato di carne.

E poi il ricordo del giorno di quando ha ucciso Vanessa:

Mi avevano raccontato piazza di Spagna, il trionfo di colore delle azalee, quella luce speciale che attraversa la grande scalinata. Un ricordo da non mancare. Con una compagna di lavoro, decidemmo di prendercela, quella mattinata, come due turiste svagate.
Il cielo brontolava di nuvole quella mattina. Avevo con me l’ombrello.
(…)
Folla nel vagone. Solita calca idiota davanti alla porta in prossimità di fermate. Serro la mano sulla sbarra che costeggia i gradini. Una ragazza sguscia veloce sotto il mio braccio, mi si piazza davanti. Stazione Termini, la metro si arresta.
(…)
Dentro ho l’eco di un urlo che lacera, vedo la ragazza mettersi la mano sul volto.
(…)
Era romana, Vanessa, aveva ventitré anni e il sorriso malinconico e buono. L’ho rubato da una foto su un giornale, quel sorriso, perché nulla di lei ricordo per quei minuti tempestosi nei quali le nostre vite si sono sfiorate, per saldarsi per sempre in un nodo violento.

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