Era agosto del 2017, in piazza Indipendenza a Roma, a pochi passi dalla stazione Termini, quando le forze dell'ordine sgomberarono centinaia di persone accampate (soprattutto eritrei) dopo essere stati mandati via una settimana prima da un palazzo occupato in via Curtatone. Le immagini raccontarono l'apocalisse di persone schiantate dagli idranti mentre dormivano, allagati con i loro pochi oggetti personali, insultati, picchiati e caricati sui mezzi della Questura. Furono tredici le persone curate da Medici Senza Frontiere per ferite e frattura da idranti e manganelli. Se dovessimo trovare un seme per ciò che è accaduto nella notte in via Cardinal Capranica forse dovremmo tornare a quel giorno nero di due anni fa, quando i poveri sgomberati fecero meno rumore (e forse perfino un po' di soddisfazione) perché avevano la pelle scura e venivano da lontano. Le barricate in fiamme, gli idranti e le cariche di oggi sono la naturale e feroce prosecuzione di una guerra ai poveri che il ministro Salvini si è trovato a raccogliere in eredità. E questo governo, si sa, disprezza i poveri e i disperati tanto da volerli disperdere, nascondere, perseguitare non potendoli seppellire.
Solo che qui, in via Capranica, le persone sono 300 e 80 sono bambini, tra cui italiani. E così chi ha sputato un po' di bieco razzismo per i fatti di piazza Indipendenza ora non può che assistere senza sgomento a una guerra che solo per utilità è stata raccontata come "prima gli italiani!" e invece è una repressione degli ultimi perché non rovinino l'appetito ai passanti, perché non mettano in crisi il buonsenso comune e perché non possano infestare la facciata di chi ci vorrebbe tutti felici, tutti soddisfatti, tutti realizzati, tutti accoglienti. E forse sarà anche per questo che l'ennesima operazione di facciata non ha concesso ai giornalisti di avvicinarsi troppo e di compiere il proprio dovere di cronisti: assistere allo Stato che assedia settanta famiglie asserragliate sul tetto di una scuola abbandonata con i bambini in lacrime è un'immagine di cui ci si può vantare nei tweet solo se non si vedono le lacrime.
Del resto è ciò che si prova a scrivere da mesi: continuare a sperare che la guerra agli ultimi possa essere un sollievo per i penultimi è una soddisfazione breve e pericolosa poiché inevitabilmente poi accadrà che la ferocia finisca per toccare anche noi. Magari di striscio, ma prima o poi arriva. I poveri fanno paura, loro con la loro cenciosa e esibita povertà, perché non avendo niente sono lo specchio che riflette l'immagine di quello che siamo noi. Se davvero il modo in cui accogliamo gli ultimi è il termometro della nostra democrazia allora bisognerebbe tenerle a mente le immagini di questa giornata, ricordarsele bene, tenere a memoria, raccontarle in giro, tenerle per i nostri figli.