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Roma, Cafè de Paris non era della ‘ndrangheta: torna al proprietario, ma è stato demolito

Lo storico Cafè de Paris, il bar della Dolce Vita che si trovava in via Veneto, è stato dissequestrato dopo dieci anni con sentenza d’appello della Corte di Reggio Calabria. Dovrà tornare al suo proprietario, accusato di essere un esponente della ‘ndrangheta, ma è stato demolito ormai da qualche anno.
A cura di Natascia Grbic
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Il Cafè de Paris, lo storico locale di via Veneto a Roma sequestrato nel 2009, dovrà tornare nella disponibilità di Vittorio Alvaro, l'aiuto cuoco considerato uno dei massimi esponenti della ‘ndrangheta calabrese. In particolare, si riteneva che l'aiuto cuoco appartenesse alla famosa cosca degli Alvaro-Sinopoli: ma la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria ha ribaltato la sentenza di primo e secondo grado, disponendo il dissequestro non solo del Cafè de Paris, ma anche di altri 102 beni. Il locale, simbolo della Dolce Vita di Federico Fellini, in realtà non può tornare fisicamente da Vittorio Alvaro, dato che è andato perduto ormai diverso tempo fa. I 180 metri quadri di ristorante, infatti, sono stati demoliti già da qualche anno perché considerati un oltraggio al decoro in un posto così centrale di Roma. Del famoso Cafè de Paris, il Bar della Dolce Vita frequentato da cantanti, attrici e personalità della cultura e del mondo dello spettacolo, oggi non c'è più traccia.

Cafè de Paris, il bar della Dolce Vita non era della ‘ndrangheta

Non ci sarebbe quindi nessun ‘Sistema Alvaro' secondo la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria. "Tutti ricorderanno il sequestro de ‘Il Cafè de Paris',eseguito nel 2009 con conseguente sottoposizione a misura di prevenzione patrimoniale di numerose aziende (si parlava di diversi milioni di euro) ritenuti nella disponibilità di Vincenzo Alvaro, fatto assurgere ad esponente di rango della omonima cosca ‘ndranghetista – dice l'avvocata di Vittorio Alvaro, Gelsomina Cimino, una dei quattro legali che ha assistito la famiglia in questi anni – Sono stati necessari oltre dieci anni di processi e procedimenti con migliaia di euro di soldi pubblici spesi e sperperati in intercettazioni per arrivare infine ad affermare l’insussistenza della pericolosità sociale che avrebbe legittimato l’applicazione della misura ablatoria".

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