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Auanagana: Alberto Sordi inventore di parole che hanno portato il romanesco sul grande schermo

“A Roma con Alberto Sordi” (Giulio Perrone Editore) di Nicola Manuppelli è un viaggio nella vita e nei film del grande attore tramite i luoghi della città che lo hanno visto recitare e vivere. In particolare il capitolo che presentiamo parla della lingua di Alberto Sordi, che è la “lingua di Trastevere”, la lingua viva e piena d’invenzioni dei romani per la strada.
A cura di Redazione Roma
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La lingua di Sordi è la lingua di Trastevere.

Anche adesso, mentre cammini per le vie più deserte, magari in pieno agosto, senti il chiacchierio piacevole della gente, una specie di ronzio, nei momenti più calmi, simile allo scroscio di una fontanella, che aleggia nei cortili interni dei palazzi, che rimbalza da una finestra all’altra. "Il romano" ha detto Sordi, "non parla neppure un dialetto. Parla un italiano da indolenti. Dice fero invece di ferro, perché non gliela fa. Così dice anche guera; e figuriamoci che guerra gli va di fare". Mi viene in mente un episodio di un paio d’anni fa, qui a Roma.

Un tassinaro si lamentava con me dei nomi che venivano dati a certi cicloni. "E poi tutti questi nomi" mi fa, "ti illudono anche. Come quando dicevano che arrivava Poppea. Voglio dire, Poppea, uno si aspetta una cosa positiva, no? E invece solo altre secchiate d’acqua. Ma io voglio sapere solo che tempo c’è. Li hanno finiti tutti i nomi. Ora anche Caino e Abele. Stanno proprio alle origini! Ci mancano Stanlio e Ollio". Gigi Proietti non ha mai lavorato con Sordi ma ne è sempre stato un grande ammiratore. Dice che quando andò a vedere Un giorno in pretura, usciti dal cinema lui e tutti i suoi amici parlavano come Sordi. Perché la lingua che Alberto usava in quel film non era inventata ma era esattamente la parlata della strada resa linguaggio cinematografico. Per esempio, il modo di ripetere la domanda. Uno ti chiede: “Che ore sono?” e tu ripeti: “Che ore so’?”. Nessuno lo aveva mai fatto prima di lui e per questo faceva ridere, perché in quel replicare "Che ore so’?" c’è tutta la filosofia del personaggio, un modo di essere, una certa indolenza. Così come nei film di Fellini il sonoro è parte della narrazione, in Sordi il dialetto e il linguaggio sono parte del personaggio che sta rappresentando.

Ecco alcune sue espressioni e dialoghi divenuti celebri da Un americano a Roma, dove mescola romanesco e idiomi inglesi storpiati, creando una vera e propria lingua:

1) "Ammazza che casa! Qui ci troviamo di fronte alla tipica casa del film amerecano… Mazza che casa! Casa amerecana, serva friulana, del Nevada!" (entrando nella casa della pittrice Molly Broke).

2) «Se anch’io da bimbo mamy fossi stato trasferito ner Kansas City… invece me so’ beccato ’a scarlattina, you remember mamy?».

3) "You take la tua street e segui sempre la tua main e nun te poi sbaglié! All right, all right! […] Attention, nun annà a destra perché c’è er burone d’a Maranella, all right, all right amerecà!" (dando indicazioni a due americani).

4) E poi quando parla da solo col gatto: "Gatto mammone! Mi sono accorto, sai? Fai finta de legge’ er giornale… Ah! Sei una spia, sei. Vuoi cantare? Canta i salmi! Ti devo sopprimere, ti devo! Ah! Odo dei passi… Sei stato tu gatto mammone, hai cantato! Tieh! becca ’sto regaluccio… Io m’apposto…"

"Il risultato di Sordi" ha detto Furio Scarpelli, "è stato quello di spiritualizzare un dialetto quando questo dialetto di spirituale sembra non avere nulla. Il romano è una lingua fatta di pochi vocaboli, eccessivamente succinti, e non echeggia nulla che appartenga a qualcosa che non sia materiale. Il Belli ha fatto la stessa operazione creativa e culturale che ha fatto Sordi, si è inventato un modo, gonfiando i rozzi termini romani e facendo vedere in trasparenza che rozzi non erano affatto, perché dietro ci sono uno spirito e un’anima".

Nel suo manuale sulla sceneggiatura, Age spiegava che una delle cose da evitare era far parlare un personaggio da solo, ma con una eccezione: Alberto Sordi. Citava come esempio Un americano a Roma quando Alberto fa il famoso monologo davanti al piatto di maccaroni. "Maccaroni… questa è robba da carettieri! Io non magno maccaroni, io so’ amerecano so’! Vino rosso, io non bevo vino rosso! Puah! Mazza che zozzeria! Gli amerecani ahò! Maccarone… m’hai provocato e io te distruggo adesso, maccarone! Io me te magno!".

Un altro esempio è nel film di Rosi I magliari del 1959. Anche in questo caso abbiamo una recita a soggetto. Dopo una scena in cui litigava con Renato Salvatori e se ne andava via in auto, Sordi ebbe l’idea di far parlare da solo il proprio personaggio mentre guidava e la propose a Rosi.

Il regista la trovò subito buona, così fece mettere una macchina da presa e un faro sull’auto e Sordi improvvisò un monologo fantastico, che Moravia definì una delle cose migliori del film.

Oggi l’inflessione della parlata di Sordi nel cinema sembra quasi normale ma non è sempre stato così. "Negli anni Cinquanta" racconta l’attore, "ho vissuto a Milano per alcuni mesi e ricordo che noi romani eravamo guardati con sospetto, proprio per il nostro modo di parlare. In una tavolata, se uno di noi diceva qualcosa, tutti si voltavano a guardarlo in silenzio, con certi occhi carichi di riprovazione".

L’italiano/romanesco dei film di Sordi rimane nella nostra lingua più dell’italiano di certi romanzi. C’è stato Ragazzi di vita di Pasolini, certo, che ha cercato di fare la stessa cosa. In quel romanzo, la lingua si allarga, si arricchisce, assume musicalità. Non procede a imbuto. Ma Sordi lo ha fatto prima.

Quando uscì Un giorno in pretura, Alberto andò da De Laurentiis perché voleva chiedergli di far rimontare alcune scene. "Sono già d’accordo con Steno" disse Alberto. Steno era il regista del film. "Nun se po’ fa, il film esce stasera" gli rispose De Laurentiis.

Il giorno dopo Alberto venne svegliato all’alba da una telefonata del padrone del cinema Corso (in piazza in Lucina, oggi trasformato in uno spazio per eventi) perché la sera prima nella sua sala dove si stava proiettando il film c’era stata un’invasione dei ragazzi della periferia, i borgatari, che quasi avevano sfondato il locale per l’entusiasmo. Era qualcosa di straordinario perché i giovani della periferia non andavano mai al cinema in centro ma aspettavano sempre la seconda o terza visione nella loro zona. Alberto è stato anche il primo a raccontare le periferie romane, che proprio negli anni in cui i suoi film cominciavano a fare successo, si stavano sovrappopolando fino a esplodere.

Fellini, che da Roma si era fatto adottare, era un inventore di parole: amarcord, dolcevita, asa nisi masa, vitelloni.

Alberto è un inventore allo stesso modo, almeno per il cinema. Crea una cadenza nuova, un intercalare, delle espressioni. Il suo romanesco, come detto, è un modo di approcciare la realtà.

"I romani non sono titolari di un idioma né di un dialetto. Si limitano a storpiare l’italiano, mica per ignoranza, lo fanno per pigrizia, anzi in virtù di quell’indolenza che non è un difetto ma una filosofia di vita. Ed è tipica di chi è nato sotto il Cupolone. Parlare correttamente costa fatica, meglio evitare". Ma le difficoltà maggiori con l’accento e l’inflessione romana, Sordi le ebbe soprattutto quando da ragazzo, a sedici anni, andò a Milano e si iscrisse all’Accademia dei Filodrammatici.

"Non perda tempo" gli disse Emilia Varini, l’insegnante di dizione, "perché lei non riuscirà mai a diventare un attore. Gesticola e pronuncia scorrettamente le parole. Non fa nessuno sforzo per parlare l’italiano. Insomma, lei è romano e la sua romanità viene fuori continuamente!".

"Mi dispiace" disse Sordi, "ma credo di essere spontaneo in questo modo. Sono nato a Roma e ho vissuto a Roma, e logicamente sono romano. Dico guera, fero, tera. Se mi chiede di dire guerra o ferro o terra, io… sento come una stretta qui allo stomaco… Io voglio parlare alla gente e la gente per la strada si comporta come me e parla come me…".

"La gente!" urlò Emilia Varini su tutte le furie. "Un attore secondo lei è la gente? Un attore è un attore e basta, è uno che se lo senti parlare, capisci subito che mestiere fa. Un attore ha un suo linguaggio che non è il linguaggio del popolo!". "Ma se io dico guerra…". "Perfetto, è così che deve esprimersi…". "No, non è perfetto… perché mi sento la strozza in gola! Non ce la faccio. Io devo essere come quelli che incontro ogni giorno per strada!".

Era il 1936 e ancora non si parlava di Neorealismo. Nel mondo dello spettacolo le regole erano rigide. L’esperienza milanese di Sordi si concluse a breve e Alberto tornò a farsi abbracciare dalla sua città, dove lo aspettavano Cinecittà, la radio e il mondo dei teatri.

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