Albano Laziale, muore aspettando un’ambulanza per mezz’ora: nessun mezzo era disponibile
"Mio padre si chiamava Gianfranco e faceva il cameriere, era un uomo devoto al suo lavoro. Un padre e un marito con i suoi pregi e i suoi difetti. E questo racconto è perché nessun altro padre, marito o figlio, nessun altro amico o cugino, possa morire con una voce che ti dica ‘Rimanga in attesa'". È morto così, Gianfranco, e i suoi ultimi minuti di vita li ha passati rimanendo in attesa, in attesa che un operatore del numero unico per le emergenze, il 112, rispondesse alla chiamata e inviasse con urgenza un'ambulanza. La vicenda è accaduta ad Albano Laziale ed è salita agli onori delle cronache grazie a una dettagliata e toccante lettera inviata al quotidiano La Repubblica nel quale i parenti di Gianfranco raccontano l'assurdo calvario dell'uomo, la cui vita è rimasta letteralmente appesa al filo di un telefono.
"‘Rimanga in attesa'. Una cordiale voce di donna me lo ripete in italiano, inglese e spagnolo. Il telefono è tra orecchio e spalla, mentre con tutta la forza cerco di sollevare mio padre che è mezzo steso a terra, una gamba piegata sotto l'addome, l'altra tesa indietro. Respira, si lamenta e dal viso scendono a terra gocce di sangue. ‘Rimanga in attesa'. Dentro di me sono convinta di poterlo rialzare, ma il solo sforzo per impedirgli di scivolare ancora è enorme, soprattutto per me che sono uno scricciolo e lui un omone. Gli dico che gli voglio bene, che andrà tutto bene e che arriverà presto qualcuno ad aiutarci.
‘Rimanga in attesa'. Sono passati più di due minuti ed è la seconda chiamata al 118. Attacco e riprovo a chiamare: ‘Rimanga in attesa'. La terza chiamata la faccio dal mio cellulare e parte alle 3:19. Nel frattempo arrivano mio fratello e la compagna. ‘Rimanga in attesa'. Lo sollevano, lo poggiano sul letto e vedo mio padre che si sta spegnendo. La chiamata è ancora aperta, sotto le grida di mia madre sento la voce registrata: ‘Rimanga in attesa'. Non so cosa fare, vorrei solo un'ambulanza, qualcuno che ci aiuti. Urlo contro la voce registrata. Prendo una spugnetta bagnata e gliela passo sul viso, provo a mettergli qualche goccia d'acqua in bocca. Poi il dubbio: ‘Forse non dovevo farlo, forse non può ingoiare. E se soffoca?'. Ma a suggerirmi cosa fare non c'è nessuno, al telefono ho solo la voce di donna. Mio fratello nel frattempo va in cerca di un'ambulanza al pronto soccorso di Albano Laziale, il paese in provincia di Roma in cui ci siamo trasferiti per fuggire dal caos della Capitale".
La straziante cronaca degli eventi prosegue con ulteriori dettagli grotteschi: i parenti di Gianfranco raccontano della mancanza di ambulanze disponibili in quel momento al pronto soccorso, della continua ed estenuante attesa al telefono che alla fine dei conti durerà quasi mezz'ora e, infine, della corsa matta e disperata verso il presidio ospedaliero più vicino, nella speranza di salvare la vita del padre ormai quasi incosciente.
La cosa buffa è che da casa mia si può quasi vedere nelle camere per la degenza perché abitiamo nella via proprio sotto l'entrata principale della struttura. In totale ci separano 300 metri, praticamente un minuto di macchina. Mio fratello però torna a mani vuote, dal pronto soccorso dicono che "non hanno ambulanze a disposizione al momento". "Rimanga in attesa", continua la voce. Questa volta però decido che in attesa non rimango più: lascio la chiamata aperta e corro fuori. Intanto, alle 3:26 parte un'altra chiamata al 118 dal telefono della ragazza di mio fratello. La sua attesa si aggiunge alla mia.
Fuori, scalza, suono ai vicini. In casa c'è solo la figlia minore. Le chiedo di aiutarmi a chiamare i soccorsi e anche lei ci prova. Poi, d'improvviso la vocina dal mio smartphone si interrompe, mi rispondono. All'operatore dico dove abito, gli spiego del rumore tremendo che mi ha svegliata e di come ho trovato mio padre. Gli dico che è ancora vivo, ma che sta per morire. Gliel'ho visto in faccia. Serve un'ambulanza urgentemente. Mi dice "Ok, trasferisco la chiamata alla centralina del 118 più vicina a lei". E anche qui la beffa, uno dei punti da cui partono è a pochi minuti da casa. Ritorno in attesa, di nuovo la voce cordiale di donna.
Urlo, mi sembra un incubo. Al telefono della vicina risponde un altro operatore: gli spiego tutto di nuovo. Sottolineo che ho già parlato con loro, che mi hanno già messo in attesa con il 118, ma che mio padre non ha più tempo, morirà se non si sbrigano. Torna la voce di donna. Mollo il telefono con la chiamata aperta alla vicina, le dico di non riagganciare e di ripetere cosa ho detto io casomai qualcuno dovesse rispondere. Corro in mezzo alla strada e comincio a urlare aiuto. Anche la vicina urla, vede un uomo uscire dalla casa di fronte. Lo raggiungo gli dico di entrare in casa mia, che deve correre perché papà sta morendo e il 118 non risponde e devo portarlo al pronto soccorso.
"Rimanga in attesa", continua la voce dal telefono della mia vicina. Quella del mio cellulare si è zittita, non so se ho riagganciato io o lo hanno fatto loro. Continuo a urlare ed esce un altro uomo. Imploro aiuto anche a lui mentre alla vicina il numero per l'emergenza sanitaria riaggancia il telefono. L'attesa è finita, ma in tutti i sensi: papà è morto. Alle 3:34 e alle 3:36 mi chiama un numero privato: "Signora se la vuole ancora, le mando un'ambulanza ". Volevo aiuto e ho avuto solo una voce registrata. L'autopsia forse dirà che si è trattato di un ictus o di un'ischemia, in ogni caso darà una spiegazione a quel tonfo che ho sentito. Forse però non saprò mai perché ho atteso così tanto una risposta dal centralino unico del 112, perché abbiamo dovuto chiamare in tre, perché mi hanno rimesso altri minuti in attesa dopo aver parlato con l'operatore. Mi domando se fosse accaduto mentre non c'era mia madre che correva a prendere il telefono o mentre non c'ero io che mi sono svegliata e che, dopo averla calmata, le ho detto di prenderlo quel telefono. O se non ci fossero stati, nella casa accanto, mio fratello e la ragazza. Mi chiedo a quante persone quella vocina abbia detto di rimanere in attesa, a quanti quei minuti sarebbero potuti servire per non perdere la vita.
Per mio padre forse non avrebbero potuto fare nulla, ma una voce umana mi avrebbe almeno aiutata, guidata, supportata. Ho dovuto caricare mio padre in macchina. Mio fratello ha dovuto guidare con le gambe tremolanti. Alle 3:34 o alle 3:36, quell'ambulanza a noi non serviva più. Eravamo già al pronto soccorso, qualche minuto più tardi ci hanno ufficializzato la morte.